CONDANNATI A 18 MESI GLI ATTIVISTI DEL COORDINAMENTO CHE OCCUPARONO FARMACOLOGIA A MILANO E LIBERARONO LE CAVIE
Il 6 giugno 2018, 3 attivisti del “Coordinamento Fermare Green Hill” vengono condannati in primo grado per avere occupato, il 20 aprile 2013, gli stabulari di Farmacologia dell’Università Statale di Milano liberando 400 topi e un coniglio.
Sotto riportiamo le dichiarazioni spontanee rese da Giuliano prima della condanna penale in Tribunale.
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Il 20 Aprile 2013 siamo entrat* nello stabulario dell’Università Statale di Milano e lo abbiamo occupato per vari motivi:
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Liberare gli individui prigionieri;
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Mostrare l’ordinaria normalità della vita di uno stabulario;
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Creare dibattito, in particolare in ambito universitario e nel mondo della ricerca;
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Rilanciare la lotta alla vivisezione all’interno del cosiddetto movimento animalista.
Tutto questo per opporci a un sistema sociale e culturale che imprigiona, sfrutta e uccide chi viene considerato inferiore e che, proprio su queste tre cose, poggia le sue fondamenta e reprime ogni tentativo di ostacolarlo.
Quel giorno abbiamo fatto una sola richiesta all’Università. Uscire con tutti gli animali. Purtroppo riuscimmo a portarne via solo una parte perché, ingenuamente, ci fidammo dell’accordo, della trattativa e degli impegni presi da noi e da loro. Noi saremmo usciti e loro avrebbero liberato tutti. Ciò, come ben sappiamo, non è accaduto. L’Università e il Rettore Vago non rispettarono l’accordo, si rimangiarono la parola data e non mantennero la promessa. Noi, purtroppo, uscimmo con solo una parte degli animali, certi che nei giorni seguenti tutti avrebbero visto la libertà. Ci siamo fidati di chi ha sempre mentito: la professoressa Viani, la quale disse che, per il semplice fatto di essere entrati là dentro, gli animali non erano più utilizzabili; il Rettore Vago, che accettò l’accordo, rimangiandoselo un istante dopo e che in questo stesso Tribunale ha dichiarato il falso, affermando che non c’era stato alcun accordo; il Professor Zoratti, Direttore del CNR, anche lui firmatario della denuncia a nostro carico che non aveva, come tutti i suoi colleghi, la minima idea di quanti animali vi fossero all’interno e di quanti ne avessimo portati via. Ma, guarda caso, sono state solerti nel formulare una richiesta di risarcimento danni che loro stessi non hanno saputo motivare, sostenere e giustificare. Quel giorno non abbiamo distrutto quelle gabbie. Gli animali ci furono affidati quando l’Università si rese conto che non eravamo cinque scalmanat* improvvisat*, ma che stavamo documentando e, soprattutto, portando all’esterno le immagini di quella brutale e ordinaria normalità, lo squallore delle gabbie, la disperazione dei prigionieri, i dati sconvolgenti riportati sul registro di carico-scarico (ricordo con orrore quelli che indicavano come venissero buttati, ogni pochi giorni, circa 34kg/37kg di topi morti alla volta) ed i commenti sui libri consegna (in particolare il fascicolo “Destinazione Heaven”, in cui si chiedevano che fine avessero fatto gli animali spariti dallo stabulario e non trovati più nelle loro gabbie.
Abbiamo scelto quello stabulario non per fare un torto a chi ci lavora dentro, ma come simbolo di tutti gli stabulari e i luoghi di sfruttamento – e non solo quelli per la ricerca. Non stavamo cercando situazioni eclatanti di maltrattamento o eccezioni. Non ce n’era bisogno. Personalmente, mi bastava mostrale la normale, crudele quotidianità di uno stabulario e vedere ciò che subiscono ogni istante gli animali imprigionati. La vita in quelle gabbie. L’essere sempre esposti senza alcuna possibilità di nascondersi o di sottrarsi. Giorno dopo giorno. Ora dopo ora. In un luogo dove anche solo un minuto può essere lungo come una vita intera, in un luogo che, a sua volta, racconta la vita di migliaia, migliaia e migliaia di altri prigionieri in altre gabbie, concrete ma anche culturali. Gabbie costruite in modo da sembrare necessarie, che a volte possono persino sembrare belle e che proprio per questo svolgono egregiamente la loro funzione. Gabbie che possono essere minuscole, come quelle dei topi che abbiamo liberato, ma anche gigantesche, come le frontiere che respingono chi invece dovrebbe essere accolto, ascoltato ed aiutato.
Da quel momento la lotta alla vivisezione è cambiata, quasi sparita. Perché gli unici che hanno capito la vera importanza e la portata di quel gesto furono proprio, per ironia della sorte, quelli che difendono lo status quo e vivono del mondo della ricerca, difendendo la sperimentazione animale. Che la praticano. Piuttosto che dai nostri compagni di lotta. Prima eravamo noi che urlavamo davanti ad un palazzo, inascoltati da tutti. L’azione di farmacologia è servita appunto ad abbattere quel muro di silenzio che ha sempre avvolto il mondo della ricerca che utilizza gli animali. Dopo l’occupazione, la controparte è stata costretta, si è sentita in dovere ed ha avvertito una necessità e un’urgenza, prima mai sperimentate, di difendere, giustificare e spiegare il proprio operato. Sono scesi in piazza, hanno scritto, partecipato a dibattiti e confronti, hanno dato vita ad una forte opposizione per rivendicare il primato della scienza, sempre e comunque, al di là di ogni etica. Noi, invece, abbiamo voluto rivendicare l’etica nella scienza e la necessità della partecipazione della società civile nelle questioni della scienza e della ricerca. Che devono rendere conto della giustizia di quello che fanno. Non dell’utilità. Non importa se una cosa è utile se sfrutti un altro essere vivente. Un altro essere vivente che normalmente, senza l’intervento dell’uomo, sarebbe in grado di creare relazioni con i suoi simili ed anche con altre specie. Che ha voglia di giocare, di essere riconosciuto come individuo. E questo nel mondo della ricerca e dello sfruttamento animale in generale manca assolutamente.
I nostri compagni e compagne non hanno saputo comprendere la profondità del nostro gesto. Il movimento, che non è altro ormai che un grande vortice che risucchia e risputa fuori solo rottami e resti di quella che invece potrebbe essere una grande forza rivoluzionaria, non ha saputo, o voluto, cavalcare, condividere e sostenere le nostre istanze. Non solo. Siamo stati lasciati soli dai nostri stessi compagni, incompresi da chi avrebbe dovuto sostenerci, attaccati e processati con pregiudizi, prima ancora che da questo Tribunale, da chi avrebbe dovuto fare parte della medesima lotta e cogliere la scintilla con cui ricostruire un’autentica azione dal basso, senza deleghe a partiti e associazioni e con l’azione diretta.
Quel giorno volevamo usare i nostri corpi sia come scudo per difendere quei prigionieri dai loro sfruttatori sia come strumento di lotta e liberazione per scardinare quelle gabbie fisiche e mentali che fanno pensare che tutto sia lecito. Un pensiero specista, così profondamente radicato in questa società, da far sembrare normale vedere ogni giorno camion pieni di esseri viventi condotti a morte, appesi nelle macellerie, confezionati e messi in bella mostra negli scaffali dei supermercati, pescati e lasciati morire lentamente, chiusi negli zoo e nei circhi, ammassati nei centri di identificazione ed espulsione o bloccati alle frontiere. Un sistema che fa sembrare normale e tollerabile il fascismo dilagante sempre più spavaldo e potente che porta anche chi pensa di lottare per la liberazione animale a sostenere chi è profondamente in antitesi con il vero significato di antispecismo. Quel giorno abbiamo fatto un’azione di disobbedienza civile non violenta. L’unica violenza l’abbiamo esercitata sui nostri corpi. Abbiamo violato delle leggi profondamente ingiuste. Perché siamo riusciti ad intravvedere, oltre quelle gabbie, il muro di silenzio che avvolge tutto questo schifo. Il vero pericolo per questa società è chi continua a voler dividere questo mondo in razze, specie, generi, chi continua a voler discriminare chi considera diverso ed inferiore. Difeso da tribunali come questo. Quel giorno, violare quelle leggi ed andare contro questo sistema di cose è stata la cosa più giusta che potessi fare.