di Antonio De Marco

Eradicare gli alieni invasivi: verso una nuova caccia alle streghe?

Eradicare una pianta ha un significato più radicale dell’estirparla. Un’erba indesiderata si estirpa dal terreno con tutte le radici, in genere con l’intenzione di non avercela davanti in quel momento e in quel luogo; l’eradicazione rimanda ad un progetto di eliminazione radicale nel tempo e nello spazio. Mentre il primo atto si rivolge ad un numero limitato di soggetti, il secondo è indirizzato a tutta una popolazione presente in un determinato habitat.

Animali invasivi

In genere in campo medico l’eradicazione fa riferimento a virus o batteri, responsabili di mortali pandemie come il vaiolo, la peste, l’ebola, la difterite e altri ancora. Cancellare questi microrganismi è avvertito come un impegno tanto più categorico quanto più si è consapevoli del bagaglio di sofferenze ad essi associato. Le vaccinazioni, le prassi igieniche, il risanamento degli ambienti hanno contribuito al loro confinamento e in alcuni casi alla loro eradicazione. Quando tuttavia la lotta ai germi patogeni si indirizza verso l’eliminazione di massa dei loro possibili veicoli, un problema di coscienza comincia ad emergere, soprattutto lì dove si fa riferimento ad organismi complessi.

Articolo De Marco Aviaria

Avere assistito a milioni di oche, polli, tacchini, quali potenziali vettori dell’influenza aviaria, gettati vivi in roghi improvvisati o arsi dalla calce fresca in fossi, prontamente richiusi sui loro corpi ammassati, aver visto scorrere nelle reti televisive tali immagini senza che nella maggior parte dei casi una voce ne lamentasse l’inusitata violenza, ha indubbiamente destato in alcune persone, poche o molte è un fatto contestuale di difficile quantificazione, un atto di rifiuto, frutto di una sensibilità offesa, affiorata ancor prima di una qualsiasi valutazione di ordine razionale.

Una perplessità  maggiore è destata se l’eradicazione si indirizza verso soggetti etichettati come alieni invasivi, in molti casi rappresentati da animali dall’articolata vita sociale e dalla complessa struttura neurobiologica, come scoiattoli grigi, nutrie, orsetti lavatori, coati, testuggini americane e altri ancora.

Un decreto legislativo (D.lgs 230/2017), in attuazione di un regolamento del Parlamento Europeo (UE n.1143/2014), stabilisce misure volte all’eradicazione rapida di quelle popolazioni di specie esotiche, considerate invasive sulla base di elenchi, ovvero liste di proscrizione, precedentemente preparate. Nel testo si richiede che sia assicurata l’eliminazione completa e permanente della specie esotica invasiva risparmiando agli esemplari oggetto di eradicazione dolore, angoscia o sofferenza evitabile, e non riportando quella unica e solitaria mezza riga, pur presente nel ponderoso regolamento comunitario in cui si afferma che è opportuno prendere in considerazione metodi non letali!

Tutto qui!

Tra l’altro gli operatori commerciali sono autorizzati ad esaurire le scorte di specie esotiche invasive di rilevanza unionale, e sono concessi due anni per sopprimere (!), sopprimere in modo indolore, vendere o, se del caso, dare gli esemplari a istituti di ricerca o di conservazione ex situ.

Nel  conciso linguaggio burocratese, si coglie un sentire alieno, in quanto esso si mostra avulso a qualsiasi barlume di sensibilità emotiva! Si potrebbe supporre che la finalità del progetto, nel caso specifico la salvaguardia delle specie autoctone che si è voluto presumere essere fortemente minacciate dall’estraneo invasivo, ne nobiliti  il compito e ne giustifichi lo spirito da crociata.

L’intervento normativo rimanda ad una serie di studi che, travalicando un tradizionale modo di presentare i dati secondo schemi probabilistici che ne avvalorano maggiormente l’obiettività, hanno fatto spesso uso di linguaggi militareschi e xenofobi, poco consoni al contesto scientifico entro cui sono stati espressi.

Articolo alieni invasiviNel 1958 C. Elton pubblicava The ecology of invasion by animals and plants, a cui avevano fatto seguito altri articoli sulle esecrate invasioni aliene, indicate come  la seconda causa della rapida erosione della biodiversità; in tale ambito un particolare significato ha avuto il lavoro di D. Wilcove e altri, dal titolo Quantifying threats to imperiled species in the United States, pubblicato nel 1998 . Negli anni successivi si sono registrati numerosi appelli alla eradicazione che, negli eccessi di una divulgazione pseudoscientifica, sono talora approdati a quella sponda dove è consuetudine diffamare una specie non nativa, ritenendo ciò utile per purificare una Natura percepita corrotta dalla promiscuità.

La forza del metodo scientifico tuttavia non sta nel proporre verità ultime e trascendenti  ma nel poter continuamente confutare, deduttivamente, le conclusioni a cui sono giunti le teorie precedenti. Così in un articolo dal titolo  Don’t judge species on their origins, pubblicato dalla rivista Nature il 9 giugno del 2011, un gruppo di diciotto ecologi, con capofila M. Davis, scriveva:

“la maggior parte delle specie non native sono utili, ma sono relegate ad una condizione di paria da pregiudizi piuttosto da una solida scienza; si assume arbitrariamente che i non-nativi sono indesiderabili, e di rimando i loro benefici sono ignorati e non studiati.”

Giudicando ipocrita un tale naturalismo ecologico gli autori sostengono, in un più recente articolo (M.Davis e al. 2017), che per un individuo, una popolazione o una specie vada posta più enfasi sulla conoscenza degli effetti e sul discernimento delle sue funzioni, meno sulla data del suo arrivo e sul suo luogo di origine. E aggiungono che il concetto di specie invasiva è frutto di un pregiudizio normativo. Originariamente si sono considerate le specie native come buone e quelle non native come cattive. Ora si tende a distinguere le specie non native tra non invasive (potenzialmente cattive) ed invasive (le veramente cattive); ma la Natura, e anche la scienza ecologica, non si presta a tale tipo di rappresentazione binaria. E concludono sottolineando come alcuni autori continuano a sostenere che le specie invasive mettono in pericolo la biodiverità e che esse ne rappresentano la seconda grande minaccia.

Tali concetti, elaborati venti anni fa, sono stati oggetto di venerazione ma essi si sono rilevati infondati e solo persone ostinate e poco informate continuano a sostenerli. Più recenti ricerche sulle minacce alla  biodiversità depongono per un ruolo sussidiario da parte delle specie invasive.

In un mondo che ha assunto le connotazioni di un villaggio globale, sottoposto più che nel passato ad una serie di fattori che vanno dalle marcate variazioni climatiche ad un incremento dell’inquinamento atmosferico, e comunque soggetto a profonde e radicali trasformazioni dei paesaggi ecologici ad opera degli uomini, il ruolo delle cosiddette specie aliene, anche di quelle classificate invasive, non è così importante come si tende a fare credere da parte di alcuni, a meno di non riferirsi a particolari situazioni come quello di predatori o parassiti introdotti in un ecosistema insulare. La Terra, nell’era dell’antropocene, è un patchwork continuamente sottoposto a strappi e rattoppi che anche i più ambiziosi e costosi interventi di conservazione mai riescono a ripristinare nelle stesse conformazioni dei periodi anche immediatamente precedenti; quando le pressioni selettive naturali sono intense, le comunità biologiche sono sospinte verso nuovi equilibri ed ogni specie, all’interno di esse, indirizza la propria azione non in riferimento alla sua origine ma al contesto specifico in cui si va trovando!

Sotto questo aspetto la normativa relativa ai cosiddetti alieni invasivi brilla, oltre misura, per una burocratica ottusità; essa è un messaggio grave e fuorviante che distoglie l’attenzione dai veri problemi che attanagliano l’ambiente; d’altronde etichettare l’estraneo non come un possibile ospite ma come un potenziale alieno, con l’aggravante della invasività, è antica pratica che ha sempre preceduto stermini ingiustificati ed inaccettabili!

Un semplice approccio, pilotato dal buon senso, evidenzia come una tale problematica debba rimandare a soluzioni non univoche e a norme flessibili che sappiano tenere conto delle tante sfaccettature presenti, ognuna caratterizzata da una propria specificità. E. Marris (2014), ricercatrice del Missoula (Montana), ne enumera alcune.

Antonio De Marco - Alieni invasivi
La tartaruga dal guscio molle e dal collo caruncolato (Palea steidachneri) è una specie minacciata nel suo areale originario (Cina, da Guangdong  fino al Vietnam settentrionale) mentre si è stabilizzata con successo a Mauritius e nelle isole hawaiane di Kauai e Oahu, dove tuttavia è considerata una aliena invasiva che si nutre dei pesci del posto. Eradicarla da tali aree potrebbe significare la sua estinzione!
Antonio De Marco - Alieni invasivi
L’Amazzone caporosso (Amazona viridigenalis) è minacciato nel suo areale originario, nel nord est del Messico, ma prospera in numerosi stormi  nelle città della California e alle Hawaii.
Antonio De Marco - Alieni invasivi
L’occhialino giapponese (Zosterops japonicus) consente l’impollinazione di numerosi fiori hawaiani che rischiano di estinguersi a causa dell’assenza dei nativi impollinatori, a loro volta portati all’estinzione da altre specie non native.
Antonio De Marco - Alieni invasivi
Il pigliamosche di Traille (Empidonax traillii), minacciato di estinzione nel suo areale, in California, ha tratto beneficio dal presenza degli arbusti dell’invasivo tamerice, tra le cui fronde ha trovato un buon sito di nidificazione.
Antonio De Marco - Alieni invasivi
L’erba spartina (Spartina alterniflora), un’aliena invasiva  delle coste californiane, impedendo ai flussi marini di fare franare le ripe dove nidificano,  ha costituito un habitat importante per il rallo di Ridgway (Rallus obsoletus) che è minacciato di estinzione a causa della rarefazione delle zone paludose, a ridosso delle aree costiere e degli estuari della California.
Antonio De Marco - Alieni invasivi
Il pino di Monterey (Pinus radiata) rischia l’estinzione del suo areale di origine, la California meridionale e il Messico, probabilmente a causa dell’eccessiva urbanizzazione, mentre è considerato invasivo in Nuova Zelanda dove ha rappresentato il 90% dei rimboschimenti; in altre aree del mondo, come in Australia, pare che tali impianti danneggerebbero l’esistenza del cacatua nero dalla coda gialla, sottraendogli cibo.
Antonio De Marco - Alieni invasivi
A Portorico la distruzione, ad opera degli agricoltori, di molte foreste native, ha visto il fallimento di tutti i tentativi di ripristino degli alberi originari, mentre la successiva piantagione di alberi di tulipano africano (Spathodea campanulata) e di melarosa (Syzygium Jambos) ha consentito la sopravvivenza di un ambiente forestale; questo ha permesso, dopo alcune decadi, che anche i nativi alberi potessero essere impiantati con successo e prosperare: attualmente le foreste di Portorico sono un  misto di piante autoctone e aliene (O.A.Martinez, 2010).
Antonio De Marco - Alieni invasivi
Gli ammotraghi (Ammotragus lervia), grandi pecore dalla folta criniera, sono presenti in piccoli gruppi lungo i crinali dell’Atlante, tra il Marocco e l’Algeria, fino al Niger e al Sudan, ma in tali zone, per l’eccessiva deforestazione, sono prossimi all’estinzione; prosperano al contrario in aree di nuova introduzione come alla isole Canarie o in Spagna, dove hanno trovato un habitat loro confacente che gli ha permesso di espandersi in modo tale da essere considerate una specie invasiva, in competizione con lo stambecco locale. Curioso registrare che un piccolo nucleo vive libero sul monte Beigua, in Liguria. Si tratta di alcuni esemplari, fuggiti nel 2016 da un parco privato che si sono ben adattati all’ambiente montano (da Wikipedia).
Antonio De Marco - Alieni invasivi

Problematiche simili sono numerose e presenti in tutto il mondo. In molti siti europei, tra cui l’Italia, il gambero di fiume americano (Procambarus clarkij), originario delle aree palustri degli Stati Uniti meridionali, si è ampiamente diffuso grazie alla sua capacità di adattarsi a diversi habitat acquatici, anche notevolmente inquinati. E’ un buon divoratore di uova di pesci e di anfibi, di insetti e di varie piante acquatiche, e per tali popolazioni rappresenta un fattore capace di ridurne la biodiversità. Diffuso in tutta Italia, Sicilia e Sardegna comprese, accusato di essere il responsabile della rarefazione dell’autoctono gambero di fiume (Austropotamobius pallipes), è tuttavia il probabile artefice dell’enorme ripresa di molti ardeidi (aironi, garze, gazzette, guardabuoi), le cui popolazione si erano rarefatte a causa della scarsità di cibo nelle acque inquinate delle paludi (F. Petretti, 2019).

In Cile un tunicato, la Pyura praeputialis, originario dell’Australia, si è stabilizzato lungo le coste della baia di Antofagasta entrando in competizione con altri invertebrati locali. Dopo qualche anno si è registrato un incremento della biodiversità  con 116 specie di invertebrati e alghe viventi in un tale ecosistema alieno, contro i 66 registrati nella situazione precedente; si è osservato che la cozza viola (Perumytilus purpuratus) contrasta l’espansione del tunicato nella zona bassa intertidale mentre la predazione delle forme giovanili da parte di stelle marine e lumache lo tiene a bada nella zona media alta (J. C. Castilla, 2004).

Tutto questo costituisce un buon esempio di come specie aliene invasive possano col tempo entrare in equilibrio in una nuova comunità biologica, favorendo così la biodiversità.

Possono essere descritte altre situazioni, diverse, come quella dei castori della Bretagna che nei secoli passati sono stati portati all’estinzione da una caccia sfrenata; un progetto finanziato dal governo scozzese ha consentito nel 2009 la reintroduzione di alcuni esemplari, catturati in Norvegia, a Knapdale (Argyl); quando le condizioni ambientali hanno permesso una crescita delle loro popolazioni e si è resa visibile la loro presenza con la comparsa di piccoli sbarramenti lungo le ripe del fiume Tay, nell’ovest della Scozia, agricoltori e pescatori locali hanno cominciato a descriverli come degli alieni invasivi, una minaccia per le coltivazioni e per le migrazioni dei salmoni, oltre a ritenerli potenziali portatori di malattie. La lunga latitanza avrebbe  fatto loro perdere il diritto di cittadinanza in quei territori!

La storia di un’altra specie aliena, invasiva per eccellenza, può bene dare conto della difficoltà di predefinire nel tempo il ruolo che l’arrivo di una nuova specie può svolgere nei sistemi ecologici che, per loro natura, sono mutevoli e complessi. Per secoli i paesi europei sono stati afflitti dalla peste, terribile malattia causata da un batterio, l’Yersinia pestis, ospitato da alcune specie di pulci. Secondo quanto riportato da un interessante articolo di A. D’Amico – La morte della morte nera, Le Scienze 2018) – nell’estate del 1727  avvenne un episodio eccezionale, riportato dalle cronache dell’epoca. Un’orda di ratti grigi, conosciuti anche come ratti marroni o ratti delle chiaviche, in forte espansione dopo da un devastante terremoto che aveva colpito l’India, guadò il Volga ad Astrakhan e invase tutta l’Europa. Dopo qualche anno, entrato in competizione con le popolazioni autoctone di ratto nero, ne ridusse fortemente la consistenza; sul ratto nero albergava la pulce Xenopsylla cheopis, serbatoio della Yersinia e sua abitudinaria ospite, che alla sua morte non disdegnava di trasferirsi prontamente sull’uomo, veicolandogli la peste; anche il ratto grigio ospitava una pulce, la Ceratophyllus fasciatura, infettata dalla Yersinia, ma a differenza della Xenopsylla cheopis, essa disdegnava l’uomo avendo come ospite specifico il ratto. In tal modo, con l’affermazione del ratto grigio,  l’infezione rimase confinata ai ratti e la peste fu quasi del tutto debellata in Europa! Oggi il ratto grigio è il ratto dominante, diffuso in quasi tutta la Terra.

Ovviamente possono essere riportati esempi in cui la specie invasiva ha determinato lo stravolgimento di interi ecosistemi, si tratta in genere, e comunque, di aree molto circoscritte, normalmente delle isole. Guam è un’isola nell’oceano Pacifico occidentale, la più grande e meridionale dell’arcipelago delle Marianne che è stata letteralmente invasa dal serpente bruno arboricolo (Pseudechis australis), un colubride nativo dell’Australia e dell’Indonesia (dal Sulawesi alla Papua), introdotto casualmente nell’isola e oggi presente in più di due milioni di esemplari!

Anche di fronte a questi casi estremi la pratica dell’eradicazione di popolazioni selvatiche solleva forti perplessità non solo in termini di una sua realizzabilità al di fuori di ambienti insulari, e solo se di dimensioni ridotte, con un enorme spreco di risorse e con effetti non prevedibili sugli ecosistemi, ma anche in riferimento a motivazioni che attingono alla sfera dell’etica.

Se si esamina come è distribuita, a livello mondiale, la quantità di massa degli organismi animali, emerge che gli animali domestici (essenzialmente polli) rappresentano il 60% di essa, gli uomini il 36%, mentre la fauna selvatica solo il 4%; quest’ultima è essenzialmente confinata nelle aree circumpolari , nelle zone desertiche e nella fascia tropicale che tuttavia appare sempre più frammentata (G. Bologna, 2019). Un valore così basso sottolinea l’estrema criticità, ai limiti della sopravvivenza, in cui si trovano molte specie di animali selvatici, in una situazione che continua quotidianamente e rapidamente ad aggravarsi per i processi di desertificazione, deforestazione, alterazioni del clima, inquinamenti, frammentazioni degli habitat, per lo più causate dalle attività umane.

I processi selettivi naturali sospingono prepotentemente gli organismi verso nuovi adattamenti, secondo moduli molteplici, difficili da prevedere se si tiene tra l’altro conto di un elemento di caoticità che è sempre all’opera in tali processi. Se la variazione genetica presente non è tale da permettere a determinate popolazioni di riadattarsi alle mutate condizioni ambientali, caratterizzanti  l’antropocene, una possibile risposta è data o da processi di addomesticamento, ma tale percorso è complesso e storicamente esso ha interessato solo poche specie, o dalla cosiddetta rincorsa dell’habitat, cioè allontanarsi dai territori di origine, e l’uomo in alcuni casi può essere un consapevole o inconsapevole vettore, e ricercare in altri luoghi le condizioni atte alla sopravvivenza e alla riproduzione, assumendo la classificazione di alieno con talora associata l’etichetta di invasivo sulla base delle nuove contingenze in cui viene a trovarsi. Può quindi accadere che una popolazione autoctona, nell’inseguimento dell’habitat, sia sospinta a migrare, anche utilizzando  l’uomo come vettore più o meno consapevole,  ed analogamente  una alloctona subentri ad essa: entrambe sarebbero considerate aliene e, se giudicate invasive, sarebbero entrambe soggette all’eradicazione!

In realtà la flora e la fauna di tutto il mondo è oggi più omogenea di quello che era nel passato perché la globalizzazione ha incidentalmente o intenzionalmente fatto muovere le specie da un continente all’altro.

Tralasciando per un momento considerazioni di tipo etico, gli interventi di eradicazione, aggravati dalla loro codificazione in norme esecutive burocratiche, rigide e contraddittorie, destano forti perplessità che il recente regolamento sugli alieni invasivi rafforza. Esso infatti fa riferimento a una problematica, quella per cui le specie aliene costituiscono la seconda minaccia alla biodiversità, che godeva di un vasto consenso scientifico circa venti anni addietro, ma che studi più recenti hanno fortemente ridimensionato, assegnando loro un ruolo sussidiario in tali processi se non addirittura  capovolgendone  il significato ed indicandole, in molti casi, come artefici di un arricchimento della diversità biologica.

  1. Davis (2017) sottolinea che l’86% delle estinzioni ascritte a specie invasive è stata segnalata in isole dalle dimensioni ridotte dove le specie endemiche sono costituite da piccole popolazioni e sono poco adattate a resistere a predatori e a cambiamenti climatici. Il Living Planet Index del WWF (2014) attribuisce a specie invasive la minaccia a cui sono esposte soltanto per il 5% dei vertebrati riportati nella lista, risultando di gran lunga più deleteri lo sfruttamento delle risorse, il degrado e il cambiamento dell’habitat, la sua perdita e i cambiamenti climatici.

Grazie alla sua specifica metodologia la conoscenza scientifica può muoversi tempestivamente lungo sentieri nuovi, alla ricerca non di verità assolute ma di probabili spiegazioni dei fatti naturali che, soprattutto in biologia, sono soggetti ad una continua trasformazione, e necessitano di frequenti riletture interpretative. L’apparato burocratico che dovrebbe supportare logisticamente un tale cammino, sembra ciclicamente destinato ad imballarsi, finendo per anteporre a questo suo ruolo quello legato alla sua semplice sopravvivenza, con una elefantiaca crescita di norme e postille che ingabbiano i processi conoscitivi. Priva di elasticità e spesso del semplice buon senso, una burocrazia, resasi lenta e talora anche arrogante, non coglie la specificità del procedere della scienza e si rapporta alle ipotesi e alle teorie scientifiche, via via elaborate, non solo con grossolani ritardi temporali ma ignorandole o, all’opposto, assimilandole a degli assiomi.

Torna alla mente quel dialogo di Socrate col sacerdote Eutifrone, riportato nei dialoghi di Platone, e giustamente ricordato da P. S. Churchland in Neurobiologia della morale (2012), in cui perfino la morale è ritenuta che possa essere tutto tranne che assiomatica. Socrate si imbatte nel sacerdote Eutifrone che sta andando in tribunale per accusare il padre di avere gettato uno schiavo in un fosso. La dignità attribuita ad uno schiavo in genere godeva di minore considerazione di quella rivolta ad un animale da compagnia; la violenza perpetrata poteva dunque, tranquillamente, essere ricomposta tra le mura domestiche, per cui in modo oggi per noi molto ambiguo si descrive una situazione in cui un figlio arrogante desidera che sia pubblicamente rimproverato un padre amorevole. Socrate rivolge ad Eutifrone la questione: qualcosa è buono perché gli dei affermano che è buono o gli dei affermano che è buono perché esso è buono? La conclusione a cui giunge Socrate è che quel che rende qualcosa buono o giusto sta nella mente degli uomini, in un percorso che si definisce storicamente.

Anche se su un piano diverso, si potrebbero qui cogliere delle assonanze qualora la ricerca fosse percepita come produttrice di verità o ancor meglio di assiomi, quasi fossero parti di entità superiori, da cui discenderebbero risoluzioni, classificate per se stesse come buone o giuste a prescindere da qualsiasi contesto sociale di riferimento. Nel caso specifico un atto legislativo disciplina non l’estirpazione o il contenimento di alcuni soggetti ma l’eradicazione di specie considerate aliene invasive a cui attribuisce, in modo impreciso, la seconda più importante minaccia alla biodiversità; esso prospetta nei loro confronti un’azione per definizione irreversibile. Un tale atto non dovrebbe travalicare una molteplicità di altre considerazioni che suggeriscono cautela e prudenza, essendo presente la possibilità concreta che i riferimenti scientifici possano essere riconsiderati o smentiti. Su tale terreno la stessa scienza andrebbe oltre i confini entro cui deve muoversi se presupponesse di enunciare delle verità o imponesse lei stessa delle risoluzioni, nel caso specifico l’eradicazione, prescindendo da considerazioni anche di ordine morale. Continuare a ritenere , afferma la Churchland (2012), che la pura razionalità e la coerenza sottendano la moralità è un errore. La convinzione kantiana che il distacco dalle emozioni sia essenziale nel cauterizzare l’obbligo morale è radicalmente in contrasto con quel che sappiamo circa la nostra natura biologica. Da un punto di vista biologico  le emozioni fondamentali sono il modo in cui madre natura ci indirizza a fare ciò che prudenzialmente dovremmo fare.

Considerazioni analoghe sono avanzate da Johnson (1993) secondo cui è moralmente irresponsabile pensare e agire come se possedessimo una ragione universale e disincarnata che genera regole assolute, procedure di decisione e leggi universali o categorie, attraverso le quali possiamo distinguere il giusto dallo sbagliato, in qualsiasi situazione ci troviamo.

Quando le voci interne, le voci di dentro di Edoardo de Filippo, compassionevoli, spingono le coscienze a ribellarsi a degli stermini programmati, quando, pietose, si risvegliano più o meno prepotentemente di fronte alla vista di migliaia di sguardi impietriti dalla paura e ammassati per essere destinati alla soppressione eutanasica (!), sarebbe un errore pensare che tali voci vanno rigettate in un cantuccio della mente perché rappresentano una debolezza che intacca la coscienza intesa come entità metafisica, dotata in maniera aprioristica di conoscenza morale.

Scrive ancora la Churchland, che la moralità è fondata sulla nostra biologia, sulla nostra capacità di avere compassione, sulla nostra abilità nell’apprendere e scoprire le cose.…Essa è un fenomeno naturale, vincolato dalle forze della selezione naturale, radicata nella biologia, modellata dall’ecologia locale e modificata dagli sviluppi culturali.

La condivisione empatica e le sensibilità emotive su cui si concretizzano molti processi guidati dalla selezione sessuale, sono all’origine della cultura e storicamente hanno preceduto i linguaggi simbolici umani; esse rimandano ad un comune patrimonio del mondo animale che si differenzia, nelle sue molteplici e specifiche complessità, più a livello quantitativo  che qualitativo.  Esse dicono che i comportamenti premurosi, i gesti altruistici, i comportamenti morali non richiedono per esprimersi una mente razionale, ovvero un linguaggio umano, ma sono adeguatamente espressi in quegli animali non umani che hanno un’elaborata organizzazione sociale.

I regolamenti, le norme, gli atti legislativi dovrebbero non prescindere da tali aspetti, ponendo in termini estetici ed etici dei vincoli ai loro elaborati; essi dovrebbero con maggiore incisività uscire dalla strettoia dei loro asettici linguaggi, e salvaguardare quelle condivisioni emotive e quelle sensibilità verso gli stati d’animo altrui, in una dimensione necessariamente estesa almeno agli animali dotati di una più complessa neurologia. Al di fuori   di tali riferimenti perfino chi si sente vincolato, attraverso la coscienza razionale, ad una legge morale che non prevede eccezioni, come la regola aurea kantiana che impone – fai agli altri ciò vorresti essere fatto a te – sia egli un legislatore o uno scienziato, preso da un fervore salvifico, può sentirsi giustificato nelle applicazioni più discutibili di una norma o di una elaborazione scientifica, come in molti casi può apparire la pratica dell’eutanasia massiva, e non esita con i migliori intenti, se ne ha la possibilità, di imporre alla società fatti che altri considerano, a livello emotivo, orripilanti.

Anche se alcuni animali sono etichettati, con terminologia militaresca, alieni invasivi o novelli untori da eradicare, diamo ascolto alle voci interne che ci dicono di rifiutare le tante esecranti azioni messe in atto per combatterli, camuffandole da bestie mostruose da annientare impietosamente!

Riferimenti bibliografici:

Elton C., The ecology of invasion by animals and plants, 1958, University of Chicago Press
Wilcove et al., Quantifying threats to imperiled Species in the United States, 1998, BioScience, 48 n.8: 60
Davis M. et al. , Don’t judge species on their origins, 2011, Nature, 474:153-154
Davis M. and Chew M.K., The denialists are coming!” Well, not exactly: A response to Russell and Blackburn. 2017.Trends in Ecology & Evolution 32: 229-230.
Marris E., It’s time to stop thinking that all non-native species are evil. National Geographic, 24
Petretti F., Comunicazione al Convegno annuale dell’UIZA.2019
Bologna G., Comunicazione al Convegno annuale dell’UIZA.2019
D’Amico A., La morte della morte nera. 2018. Le Scienze agosto:60-67
Churchland P.S., Neurobiologia della morale. Milano Raffaele Cortina Ed.
Johnson M., Moral imagination:Implications of cognitive Science for Ethics. University of Chicago Press
Juan Carlos Castilla et al., Invasion of a rocky intertidal shore by the tunicate Pyura praeputialis in the Bay of Antofagasta, Chile. 2004. PNAS June 8, 101 (23) 8517-8524
Abelleira Martinez et al., Structure and species composition of novel forests dominated by an introduced species in north central Puerto Rico. 2010. New Forests 39: 1-18
Sara Vitadacani Onlus
Antonio De Marco
biologo, evoluzionista, ricercatore del CNR, ha fondato e gestisce il Parco Faunistico di Piano dell’Abatino dove assiste animali selvatici feriti o debilitati affidati al parco da enti pubblici e privati cittadini. Ha pubblicato diversi articoli e volumi sull’evoluzione e coordinato
progetti di conservazione e di recupero di fauna in difficoltà, in collaborazione con organizzazioni pubbliche e private. Cura iniziative di tipo didattico al fine di promuovere e diffondere una migliore conoscenza di tematiche naturalistiche, con particolare attenzione ai processi evolutivi e alla selezione naturale.
Articolo presentato all’ Istituto italiano di bioetica durante il tavolo di lavoro
“ERADICARE L’ALIENO? Riflessioni sul D.lgs 230/2017 e sulle disposizioni volte a prevenire e gestire l’introduzione e la diffusione delle specie esotiche invasive.”
Firenze, 27 marzo 2019
Gruppo di Lavoro “Bioetica animale e ambientale”