
Ormai ci siamo.
Solo una settimana ci separa dall’emissione del verdetto.
Dal 25 giugno, giorno in cui verrà pronunciata la sentenza del processo per l’occupazione dello stabulario di Farmacologia dell’Università Statale di Milano.
Quando le attiviste e gli attivisti del Coordinamento Fermare Greenhill, a volto scoperto, compirono un’azione di disobbedienza civile senza precedenti.
Era il 20 aprile del 2013.
Noi eravamo con loro quel giorno.
Come sempre, fin dagli albori della campagna contro greenhill, che costruimmo insieme, e che portammo avanti, fianco a fianco, azione dopo azione.
Ci piace a volte ripercorrere quei giorni straordinari, passo dopo passo, perché cambiarono, per sempre, la lotta alla vivisezione nel nostro paese.
Sono giorni lontani, che molti non conoscono o hanno dimenticato.
Giorni che portarono all’attenzione di tutti contenuti autenticamente rivoluzionari e modalità di partecipazione, protesta e azione diretta, raramente viste e sperimentate.
Prima e in seguito.
Perché a dispetto del suo dirompente significato non ha fatto scuola quell’azione.
O ne ha fatta troppo poca.
La deriva e le strade prese in seguito dal movimento lo dimostrano ampiamente.
Tristemente.
Mentre dovrebbe ogni giorno insegnare e continuare ad insegnarci qualcosa quell’azione.
Di sostanziale e irrinunciabile.
Dirci chi siamo.
Da dove veniamo e, soprattutto, quale è il mondo che vogliamo.
E quale invece desideriamo cambiare.
Ricordare quei giorni ci commuove.
Ci insegna.
Ci stimola.
A fare sempre meglio.
A fare di più.
A non temere di metterci in gioco.
A decidere di tentare di fare la differenza anche se siamo piccoli.
Pochi.
Soli.
Per questo saremo in aula con i ragazzi e le ragazze, alla lettura della sentenza.
Come le altre volte, sempre al loro fianco.
Perché avremmo potuto essere noi invece che loro in quello stabulario.
Perché pensiamo che ogni giorno ognuno di noi dovrebbe fare quello che loro hanno fatto.
Se non vogliamo soccombere alle gabbie che noi stessi, nostro malgrado, ci portiamo dentro.
E che ci fanno titubare.
Tentennare.
Mancare il coraggio.
Pensare che, tutto sommato, quanto accade sia inesorabile.
E che noi, dopo tutto, non possiamo cambiare nulla.
Dell’orrore immutabile.
Ma non è così.
Prendiamo coraggio.
Esponiamoci.
Agiamo.
Ogni giorno.
Restituiamo libertà.
Vi aspettiamo in aula il 25 giugno.
Per dare solidarietà.
Per non abbandonare chi ha rischiato tanto quel giorno.
Anche la propria libertà.
E’ importante.
Se come noi credete che ancora tutto possa accadere.
E soprattutto se sperate con tutti voi stessi che qualcosa possa mutare.
E che il cambiamento sia a portata di mano e inizi oggi.
Ancora e ancora.
Vitadacani onlus
“Sapevamo che, dopo Green Hill, sarebbe stato molto difficile riportare in piazza così tante persone. Infatti, tornammo presto alle centinaia a cui eravamo abituati, ma la gente sembrava più consapevole e informata.
L’occupazione di Farmacologia fece il giro del mondo.
Cinque di noi si asserragliarono, legandosi per il collo, al quarto piano dello stabulario di Farmacologia dell’Università Statale di Milano.
Entrammo la mattina scavalcando i cancelli con le scale.
Entrammo in dieci per aiutare gli altri a chiudersi dentro con relativa tranquillità, con noi che tenevamo libere le scale e li aiutavamo a barricarsi dentro.
Fu un’azione senza precedenti.
Il mondo della ricerca da sempre inviolabile fu attaccato al suo cuore pulsante, in uno dei centri di ricerca più importanti della città, dove lo stesso CNR operava.
Furono minacciati dall’interno.
Violati i loro studi, buttata all’aria la ricerca, mischiati i cartellini.
All’inizio cercarono di farci paura.
Quando la piazza si gremì di mezzi dei vigili del fuoco, con le gru per salire dal tetto e tirar fuori da lì i ragazzi.
Sapevamo che sarebbe stato facile dall’alto.
Ma loro, evidentemente, no.
Ci si gelò il sangue.
Capimmo che saremmo tornati a casa presto, ma non dicemmo nulla.
Poi accadde il miracolo.
Ci fu un attimo di silenzio prima del boato della gente.
Il tempo di deglutire e un respiro trattenuto.
Fu quando giuliano iniziò a leggere il registro di carico e scarico e cristina e lorenzo e francesca iniziarono a ripetere i testi dei protocolli, dall’alto coi megafoni, mentre noi sotto guardavamo con la faccia in su sotto una pioggia scrosciante che non dava tregua.
Ricordo che ero andato in macchina a prendere i panini per distribuirli alla gente.
Le ragazze del gruppo cucina avevano preparato salsa di ceci, verdura e tofu per imbottirli.
Non feci in tempo a portarli al gazebo.
Li feci cadere a terra e li prese chissà chi.
Quando la polizia ci venne a cercare tra la folla perché l’università voleva trattare.
Già? Nei nostri piani avremmo potuto resistere poche ore prima di essere brutalmente sbattuti fuori. Qui, dopo poco, avevamo la credibilità per una trattativa.
E non era un dettaglio.
D’istinto dissi che ce ne saremmo andati solo con gli animali e mi cadde la bocca, ma cercai di non farlo vedere, quando acconsentirono, dicendo che andava bene, ma solo quelli che i cinque potevano portar via da soli.
Nessun altro sarebbe potuto entrare nello stabulario.
Nell’atrio del dipartimento, luogo della trattativa, entrai con sara radiosa e piena di luce, anche se bagnata come un cencio, con i capelli pieni di vento e pioggia, con le gocce che scendevano come lacrime lungo le guance, anche se non piangeva.
Pure così, alla luce di quel neon orrendo, con le mutande fradice sotto i pantaloni pesanti di pioggia, splendeva luminosa come una creatura brillante in mezzo a quell’umanità disumana.
Io, accanto a lei, camminavo cento metri sopra il cielo.
Praticamente passammo oltre e sopra a tutti.
Quasi volando.
Pure così, zuppi e madidi, con estrema naturalezza, come nulla fosse, trattammo per ore per portare a casa il massimo.
Più volte interrompemmo bruscamente i lavori.
Tornammo sui nostri passi.
Rischiammo di buttare tutto all’aria.
Ricucimmo, pazientemente e sapientemente, gli strappi.
Mille scampoli rammendati insieme con pazienza.
Facevamo telefonate infinite ai ragazzi, al quarto piano.
Con la Digos che premeva per concludere.
Volevano andare a casa.
Anche se erano asciutti, loro.
Non ne potevano più.
L’azione si concluse con l’università che inaspettatamente si mise a trattare e cedette.
Contro ogni immaginazione.
La negoziazione tra Digos, università e sara per definire i dettagli fu lunga e tormentata.
Promisero di liberare anche tutti gli altri.
Che comunque erano già salvi e non sarebbero stati utilizzati (perché per loro inutilizzabili), ma mantenuti in vita presso di loro.
Si resero disponibili ad accordarsi nei giorni successivi per l’affidamento degli animali all’associazione Vitadacani.
Sembrava già cosa fatta.
Per questo sbaglia chi dice che rubammo gli animali, li sottraemmo illegalmente.
Il furto è tra i pochi reati che non compimmo quel giorno.
La giornata si concluse con i 5 di noi scortati fuori dall’università con le braccia cariche di scatoloni che portavano in salvo circa quattrocento topi e un coniglio.
Sembrava surreale.
Degna conclusione per una giornata memorabile e incredibile.
Di solito accadeva il contrario.
La stessa polizia era attonita, ci portava fuori, verso la libertà, invece che in questura.
Si limitarono a prenderci i documenti.
Tanto ci conoscevano già tutti.
Nessuna altra conseguenza lì per lì.
Oggi aspettiamo ancora la liberazione di tutti gli altri animali rimasti dentro.
Almeno di quelli che ci avevano promesso.
E che, già, avevano dichiarato salvi.
Noi avevamo mantenuto la promessa, andandocene.
L’università statale di Milano, no.
Il rettore, nei giorni e nei mesi a venire, negando l’affidamento degli animali, tradì ignobilmente la parola data.
Tradì la parola data a sara, a me, a quanti aspettavano fuori, ancora, in quel giorno di pioggia, bagnati dalla mattina e si fidarono.
Per l’università di Milano, per il rettore non significò nulla quella parola.
Bastò rimangiarsela per farla sparire.
Ma per noi no.
Sfacciatamente, senza un briciolo di vergogna, si rifiutano ancora di dare una spiegazione, rispondere, esporsi.
Ma verrà la resa dei conti.”