di Antonio De Marco
La mattanza degli agnelli
“Sicuramente nelle foto che vedo girare nei social, gli agnelli hanno pochi giorni (quindi smuovono maggiormente le coscienze), noi invece macelliamo solo dopo i sessanta giorni”.
Tratto da un articolo pubblicato su Gamberorosso.

Noi uomini continuiamo ad essere vittime della nostra aggressività, la nostra storia è densa di violenze indicibili ed il secolo che è appena trascorso non ha di eguali per stermini e genocidi.
LA DOMESTICAZIONE: UN PATTO TRADITO
Il processo, presente fin dagli albori delle prime comunità umane e che ci ha portato ad essere, per nostra scelta, animali domestici per antonomasia, pur ponendo a suo fondamento il senso di solidarietà, l’aiuto reciproco, l’amore verso il prossimo, non è riuscito a liberarci dagli innumerevoli atti di violenza esercitati nei confronti dei nostri simili. Tale violenza trae tuttora alimento anche dalla incapacità di svincolarci dalla sopraffazione che continuiamo ad esercitare verso soggetti appartenenti ad altre specie, soprattutto tra quelle che, attraverso specifici processi di domesticazione da noi governati, abbiamo reso mansueti ma incapaci di sopravvivere al di fuori di ambienti modellati dai nostri bisogni.
Il contratto che idealmente abbiamo stipulato in origine con alcuni di tali animali, usi a vivere in greggi o in mandrie, si è rivelato un ignobile arbitrio in quanto in cambio di un rifugio e di una alimentazione spesso miserevoli, noi abbiamo preteso di potere disporre delle loro vite, senza alcun rispetto dei loro legami familiari, ed innanzitutto di quelli che legano i piccoli alle loro madri. Abbiamo a loro negato quel che sta alla base di ogni organizzazione sociale che in particolare nei mammiferi, ma non solo tra di loro, è governata da sentimenti, emozioni, strategie evolutivamente stabili più o meno complesse ma comunque quantitativamente e non qualitativamente differenti da quelle che regolano le nostre società.
L’evoluzione per selezione naturale pone al centro del suo processo l’individuo, scrigno unico di specificità che sono il fondamento della diversità biologica ed elemento basilare della sua ricchezza. Se alla centralità dell’individuo si contrapporre la specie, quando essa è intesa come entità all’interno della quale le soggettività si appiattiscono, si persevera in un imperdonabile atteggiamento, che fin dalle origini della nostra socialità, ai tempi dei primi allevatori, non ha risparmiato sofferenze infinite non solo ai nostri animali domestici, ma di riflesso ai nostri stessi simili.
LA MANCATA EMPATIA
Se in nome della presunta salvaguardia della specie, si è incapaci di cogliere lo sguardo spaurito di un cucciolo condotto al macello, se le grida straziate di vite separate sono percepite come rumori noiosi, se si è incapaci di sentire la differenza tra la predazione esplicata da un animale selvatico che si esercita e si esaurisce nella immanenza di un bisogno, rispetto alla programmata uccisione di un soggetto di cui spesso si è condivisa anche emotivamente la sua breve esistenza, da lattante a cucciolo, allora bisogna rassegnarci a dover aspettare ancora a lungo che l’empatia trovi un più ampio spazio nelle nostre menti.

EMPATIA E SOSTENIBILITA’ PER AVERE UN UN FUTURO

Una certezza può essere di conforto: se le mattanze di tanti animali in un tempo futuro avranno fine perché la coscienza collettiva le aborrirà, anche l’aggressività che ancora ci attanaglia si ridurrà e con essa anche guerre e stermini.
Ma se anche tali sentimenti tarderanno a diffondersi, un freno a tanto scempio sarà comunque imposto dalla stessa insostenibilità degli attuali processi di sfruttamento delle risorse ambientali, che trovano un loro fondamento in un’alimentazione basata su un consumo diffuso di carne, innaturale per noi umani, forgiati dalla selezione naturale a nutrirci con un’alimentazione vegetale.
